Recentemente ho incontrato un pastore di una comunità evangelica molto numerosa e ben conosciuta in città. Sapendo della mia appartenenza alla chiesa avventista, con fare molto naturale, ha commentato: “ah quelli che non mangiano il maiale e si incontrano il sabato”. Benché si tratti di un semplice e solo parere, questa reazione mi ha fatto molto riflettere sulla percezione dei nostri “vicini” alla nostra fede e soprattutto sulla nostra capacità di saperci presentare.
Nell’epoca dell’attesa del Messia, alla prima venuta di Cristo, ogni circostanza ed avvenimento che poteva ricondursi all’identificazione dell’Unto, veniva studiato e conosciuto con molta cura. I capi religiosi conoscevano le profezie bibliche, perché il tempo era giunto e bisognava fare attenzione a non sbagliarsi sull’identità del Liberatore. Queste furono senza alcun dubbio, le ragioni che spinsero i giudei di Gerusalemme a mandare una commissione d’inchiesta per interrogare Giovanni Battista; in effetti le sue azioni e il “successo”, inducevano a ipotizzare che si trattasse del Messia atteso.
Non alimentare false speranze
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei mandarono da Gerusalemme dei sacerdoti e dei Leviti per domandargli: «Tu chi sei?» Egli confessò e non negò; confessò dicendo: «Io non sono il Cristo». (Giovanni 1:19-20)
Giovanni Battista è perentorio e immediatamente determinato a fugare ogni ombra di dubbio. “Io non sono il Cristo”. Il suo intento, esplicito, era quello di non confondere i suoi interlocutori e di non alimentare false speranze pur testimoniando di se stesso: “Io non sono…”. Giovanni conosceva molto bene il suo tempo e le circostanze che aveva dato origine alla commissione d’inchiesta. Una risposta maldestra avrebbe potuto generare delle conseguenze compromettenti per la sua missione.
Nel rispondere ai nostri amici, anche noi dovremmo fare molta attenzione per non pregiudicare il loro interesse per la Parola e per il Salvatore. È molto importante tenere conto del contesto socio-culturale e religioso nel quale vivono i nostri interlocutori. D’altronde la testimonianza non è l’enunciazione di dogmi e precetti che non mutano nel tempo; al contrario si tratta dell’intervento di Dio nella nostra vita nel tempo presente. Una preparazione è necessaria: “Prima di parlare alla gente, coltiviamo la comunione con Cristo! Implorate di fronte al trono della grazia la capacità di aiutare gli altri spiritualmente.” {PV 96.4}
L’onestà intellettuale suscita interesse
Essi gli domandarono: «Chi sei dunque? Sei Elia?» Egli rispose: «Non lo sono». «Sei tu il profeta?» Egli rispose: «No». (Giovanni 1:21)
La nostra generazione è quella del “sempre connessi”. Internet nella società moderna non è un’opzione ma una prerogativa imprescindibile per restare in contatto con il mondo e con gli altri. Ad ogni istante possiamo verificare e conoscere le previsioni meteo, le ultime notizie, mail e profilo Facebook. Questo contesto ci costringe ad una maggiore onestà intellettuale senza precedenti. Ogni nostra parola potrà essere verificata in tempo reale. Saremo cosi smentiti o approvati in pochi nano-secondi. Di fatto la nostra testimonianza potrà raggiungere luoghi e persone che non abbiamo mai ne visto ne conosciuto. Siamo nella possibilità di raggiungere con un clic gli “estremi confini della terra”. Ciò che diciamo potrebbe acquisire una rilevanza globale, e un valore mondiale. In questo contesto siamo chiamati a fare prova di grande saggezza e correttezza. È condition sine qua non che la nostra testimonianza sia la descrizione di una fede vissuta, coerente con l’appartenenza alla comunità di fede.
Le domande rivolte a Giovanni Battista nel versetto 21 avrebbero potuto indurlo in disquisizioni teologiche ed esegetiche su Elia e l’apparizione del Messia. Giovanni evita di dire tutto e di più.
Testimoni di un vissuto
Essi dunque gli dissero: «Chi sei? affinché diamo una risposta a quelli che ci hanno mandati. Che dici di te stesso?» (Giovanni 1:22)
Ecco la più bella domanda del mondo: “Mi parli di te?” La testimonianza è raccontare ciò che si è vissuto, e sperimentato. Immaginate di ricevere la visita di un venditore di un potente e sofisticato aspirapolvere. Malgrado non siate intenzionati ad acquistarlo vi ponete a l’ascolto della dettagliata descrizione fino a quando – quasi in maniera “miracolosa” – cominciate a provare un certo interesse. A questo punto, non vi resta che verificare che la descrizione corrisponda con la sua funzionalità. Chiedete allora di fare una prova. Con grande sorpresa e… delusione, l’aspiratore non aspira. Che fate l’acquistate lo stesso perché le sue caratteristiche sono uniche? Certamente no.
Giovanni Battista testimonia della sua relazione con Dio, della sua appartenenza al popolo di Dio attraverso la missione che gli è stata affidata. In effetti una testimonianza efficace non può prescindere dalla missione. L’intervento di Dio nella nostra vita contiene l’intenzione della salvezza. Dio opera in noi per la nostra e altrui salvezza. La nostra testimonianza è la missione di Dio in noi.
La nostra testimonianza non deve essere una lista di caratteristiche dottrinali di alto prestigio, al contrario le persone saranno convinte “dall’efficacia” della nostra relazione di fede. Anziché dire io credo, non sarebbe meglio dire io vivo?