Francesco Zenzale – È “stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, stroncato a causa delle nostre iniquità” (Isaia 53:5). E, “dopo aver dato la sua vita in sacrificio per il peccato, egli vedrà una discendenza, prolungherà i suoi giorni” (v. 10). Egli “renderà giusti molti, perché si caricherà della loro iniquità… egli ha portato il peccato di molti e ha interceduto per i trasgressori” (vv. 11, 12).
Volendo schematizzare questo illuminante brano profetico del servo sofferente e trionfante, possiamo evidenziare alcuni insegnamenti:
1. L’illustrazione dell’opera del servo del Signore è in perfetta armonia con il rituale del sacrificio per il peccato. Infatti, il sofferente è paragonato all’agnello “condotto al mattatoio” (v. 7). Ancora una volta ci troviamo di fronte al problema del peccato e il profeta, a partire dal rituale ebraico, cerca di illustrare il modo in cui Dio lo risolve.
2. Il testo rileva che il problema peccato non poteva essere risolto nel cielo, ma sulla terra. Giovanni ci informa che Satana è stato scaraventato con i suoi angeli sulla terra (cfr. Apocalisse 12:7-9). Ciò significa che il peccato, in tutte le sue conseguenze, doveva essere affrontato sul piano umano.
3. Il peccato non poteva essere eliminato dall’uomo, perché lui stesso ne è parte attiva, ma da un intervento esterno proveniente dal cielo. Ciò significa che la nostra limitata esistenza, come anche il nostro esito finale, è conseguente a un atto di grazia da parte di Dio.
4. La trasgressione, per essere estirpata, doveva essere avversata sulla terra e da un innocente. avendo come testimoni Dio stesso e l’intero universo.
5. La vittima, nella sua innocenza, si fa carico del peccato per annientarlo definitivamente nella sua stessa carne, per poi risuscitare e continuare a vivere. Infatti, il testo ci informa che il servo sofferente, dopo la morte “vedrà una discendenza, prolungherà i suoi giorni, e l’opera del Signore prospererà nelle sue mani. Dopo il tormento dell’anima sua vedrà la luce e sarà soddisfatto” (Isaia 53:10-11). Ciò significa che la vittima risorgerà perché ha vita in se stessa (cfr. Giovanni 5:26), oltre ad essere stato immolata irreprensibilmente. Infatti, in due specifiche occasioni Gesù chiarisce che egli “è la vita” e che poteva deporre questa sua “vita” per poi riprenderla (cfr. Giovanni 1:4; 14:6; 10:17).
6. Il brano evidenzia che Dio partecipa attivamente all’atto cruento del servo sofferente, mediante il quale pone fine al peccato in tutte le sue conseguenze. L’espressione “Piacque all’Eterno” è in perfetta armonia con Giovanni 3:16 e con altri testi del Nuovo Testamento (cfr. Romani 5:8; Efesini 2:4; 1 Giovanni 4:9, 10), nei quali si evidenzia che il sacrificio di Gesù è un atto d’amore della divinità in favore dell’umanità.1
7. Nell’umanità del servo sofferente e trionfante emergono due elementi determinati e integrativi per la sconfitta del peccato: “L’innocenza e la vita in se stesso”. Aspetti che non troviamo nell’uomo.
In breve, in contrasto all’uomo schiavo del peccato che torna a essere polvere, il servo di Dio oltre ad essere innocente ha vita in sé e può disporla come vuole. Se l’uomo vuole salvare la sua vita dovrà perderla, perché la vita, benché sia un atto di grazia da parte di Dio, è limitata nel tempo e nello spazio. In contrasto, il servo di Dio ha vita in esuberanza (cfr. Gv 10), non solo per annientare il peccato, ma anche per inondare d’eternità chiunque crede in lui (cfr. Gv 3:16). Dunque, un servo sofferente e vincente, come lo saranno tutti coloro che apriranno il cuore alla sua grazia (cfr. Ap 12:11).
Nota
1 “Piacque all’Eterno”. Questa espressione potrebbe essere equivocata, nel senso che Dio in qualche modo ha provato piacere nel vedere suo figlio morire. In realtà, nel contesto, il termine “piacque” indica semplicemente piena condivisione da parte della divinità nel portare avanti il piano della salvezza.
Fonte: https://news.avventisti.it