Ho perso la mia chiamata al ministero

Shares

(Questo articolo viene scritto per tre motivi. 1) È una storia da raccontare. 2) Il mio desiderio di comunicare tende a trapelare in un modo o nell’altro. 3) Non posso fare a meno di aggrapparmi a un senso di speranza. Questo è forse un modo per articolare ciò che per lo più non riesco a dire in preghiera).

 

La chiesa avventista è stata la mia casa fin dalla nascita. Quando avevo sette o otto anni, ricordo che pregavo, invitando Gesù nella mia vita. Poi ho vissuto un’esperienza di conversione più profonda nella tarda adolescenza che mi ha portato al battesimo.

La mia conversione è stata accompagnata da una chiamata al ministero.

Non è un’affermazione che faccio con leggerezza. La mia chiamata aveva tutti i crismi di cui ho letto e sentito parlare. Sono stato profondamente colpito. In un’occasione ho avuto una vivida esperienza della presenza di Dio. Ho agito in base a questa chiamata e ben presto ero alla guida di piccoli gruppi di giovani, gruppi della Scuola del Sabato e altri ruoli ancora.

Spesso le persone facevano commenti. Ricordo molte occasioni in cui la gente mi chiedeva se sarei diventato pastore. Molti davano per scontato che sarebbe stato così. Nel profondo concordavo con loro. Mi ero dato a Dio. Ero entusiasta del nuovo scopo della mia vita. Tutto ciò che volevo fare era servire e seguire il Signore. Credevo che mi avesse dato dei talenti per questo scopo.

Così eccomi qui, più di vent’anni dopo, a lavorare in un posto di lavoro laico, riflettendo quasi quotidianamente con misura significativa di dolore e rimpianto.

Non sono un pastore. Non sono mai stato un pastore.

Ho perso la mia chiamata al ministero.

Com’è successo? Non ho una risposta chiara, ma ci sono alcune cose particolari da segnalare.

Il pastore in pensione con cui ho studiato alla fine dell’adolescenza era un gigante spirituale, un veterano di molti anni di servizio nelle isole del Pacifico e in Australia. Aveva studiato con mia madre due decenni prima. Lo visitai settimanalmente per due anni e fu lui a battezzarmi. Era paziente, fedele, pieno di incoraggiamento. Era sensibile alla crescente chiamata di Dio sulla mia vita. Ma aveva un consiglio fondamentale; quello di non andare all’Avondale College!

Questa fu una posizione che non abbandonò negli anni successivi e la rafforzò attraverso varie lettere e conversazioni. Aveva le sue ragioni, ed erano genuine e sentite. Nessuno più di lui desiderava la crescita del regno di Dio. Piango la sua scomparsa e desidero ancora la sua influenza e le sue preghiere. Ma rimpiango i consigli che mi ha dato; la mia vita avrebbe potuto essere diversa.

C’è anche da dire che ho una personalità avversa al rischio. Sono indeciso e incline a procrastinare e a pensare troppo. Questo è stato rafforzato da varie influenze. Una delle massime di mia madre nella vita era “aspetta”. È un’idea molto biblica. Così come, naturalmente, lo è andare avanti, fare un passo avanti nella fede. Ma io ero impegnato a trovare un freddo conforto nell’ubbidienza dell’attesa quando la strada non era chiara. L’Avondale College era una realtà molto lontana da casa e costosa per chi proveniva da una famiglia di campagna frugale.

Nessuno mi ha mai scoraggiato attivamente dal seguire la mia chiamata. A volte i miei genitori cercarono di suggerirmi alcuni modi per permettermi di frequentare la scuola per la formazione al ministero. Ma l’inerzia mi aveva già bloccato. Mia madre era una campionessa della fede e ha lasciato un esempio meraviglioso e unico in molti modi. Anche io piango la sua scomparsa e vorrei aver potuto onorare meglio i decenni di preghiera e di fede che ha riversato su di me.

Infine, a un certo punto del percorso, la mia chiamata si è colorata di un senso di unicità. Ho sentito Dio che mi parlava attraverso alcune letture e studi. Il più importante è stato questo passo: “Ancora oggi molti sono messi alla prova come Abramo: benché non vi sia una voce che parla loro dal cielo, la Parola di Dio e le manifestazioni della Provvidenza rivolgono un appello agli uomini. […] Il Signore chiede a questi uomini di allontanarsi dalle loro certezze, materiali e affettive […]. Chi, incurante delle occasioni perse per seguire Gesù, accetterà nuovi compiti e affronterà prospettive oscure, nel tentativo di realizzare con decisione e costanza l’incarico che Dio gli ha affidato? Colui che accetta possiede la fede di Abramo” (Patriarchi e profeti, p. 101).

Credevo che dovessimo ascoltare la voce di Dio quando ci parla personalmente. Sentivo che Dio mi stava chiamando a qualcosa di diverso. Un percorso verso il ministero che si discostava dal modello abituale di preparazione al ministero ad Avondale. Così, con fede, ho aspettato che questo percorso si manifestasse.

E ho continuato ad aspettare… con grande ubbidienza. Sono stato paziente. Sono stato fedele. Ma questo percorso diverso non si è mai concretizzato.

Ero attivo in altri modi, predicando spesso e guidando vari studi biblici. Ho frequentato un programma intensivo di un college biblico negli Stati Uniti. Ho svolto un lavoro missionario di semi-volontariato per 15 mesi e in un paio di occasioni ho predicato all’estero in programmi di evangelizzazione.

Una volta ho scritto a un gruppo di pastori. Era una lettera piuttosto sconclusionata se la rileggo ora. Rifletteva sia un desiderio profondamente radicato sia uno spirito combattuto. Ho ricevuto diverse risposte. Erano misurate, gentili e incoraggianti, ma non risolvevano il mio conflitto interiore. Non riuscivano a rispondere a domande che non sapevo articolare.

Oggi so che nel mio cuore stavo facendo ciò che ritenevo giusto. Cercavo con sincerità e serietà di seguire la volontà di Dio. Ma la mia capacità decisionale era fondamentalmente difettosa. Il mio funzionamento esecutivo, com’è noto in psicologia, non funzionava.

Poi è successo. La porta si è chiusa.

All’improvviso mi sono ritrovato senza una via d’accesso al ministero. Nessuna delle opzioni era più aperta. Dio aveva fallito. Avevo creduto che avesse un piano per la mia vita. Avevo aspettato, per lo più con pazienza, che si facesse vivo, ma non era arrivato.

Non avevo idea di quanto tutto questo si sarebbe rivelato straziante. Con il senno di poi, forse è solo una conferma della sua chiamata nella mia vita, ma allora non ci pensavo. Presto mi ritrovai completamente distrutto, svigorito dalla rabbia e dalla delusione, sconcertato e solo. Erano questioni con cui avevo lottato con Dio per un decennio della mia vita. Non ne parlai con nessun altro. Mi sentivo troppo stupido e colpevole.

Dopo più di dieci anni, la porta è ancora chiusa. Nel frattempo la mia fede ha traballato, ha fissato a lungo l’oscuro abisso della propria fine, poi si è avviata lentamente all’arduo compito di riscoprirsi. E negli alti e nei bassi, trovo che la chiamata sia ancora presente.

Ho mille sermoni in testa. Saltano fuori in momenti casuali. Sotto la doccia, mentre vado al lavoro, nel bel mezzo del sermone di qualcun altro, quando vado a correre. Non posso farne a meno. L’impulso a proclamare il Vangelo non se ne va.

Osservo le persone all’interno della chiesa e della comunità. Vedo i loro punti di forza e le loro debolezze, osservo i loro sforzi e assisto alle loro paure. Immagino il loro cammino e voglio farne parte, incoraggiandoli lungo il loro percorso.

Leggo gli articoli di Record e Adventist World, unendomi alla famiglia più grande di cui faccio parte. Faccio silenziosamente il tifo per loro. Ho versato lacrime leggendo un articolo di Dick Duerksen. Desidero avere un ruolo più importante nella costruzione di questo movimento e nell’influenzarne la direzione.

Sono coinvolto nella mia chiesa locale in piccoli modi, ma mi sembra di essere seduto in disparte. Non sto svolgendo il ruolo che mi spetta. Sono parte del corpo, ma faccio il lavoro di qualcun altro. E vedo costantemente uno spazio vuoto che era destinato a me.

Nel frattempo, vado avanti. Ho una carriera in un settore sanitario che è interessante e gratificante sotto molti aspetti. Sono bravo in quello che faccio e ho il rispetto di numerosi colleghi e clienti. Mi chiedo costantemente se la mia chiamata sia stata solo un’ingenuità o un sogno infantile che non è mai stato realistico, come se ci fosse un bisogno emotivo non soddisfatto. Ma, anche se probabilmente ci sono alcuni di questi elementi, non spiegano il desiderio in modo adeguato.

Non dò la colpa a nessun altro per la mia situazione, e per lo più ho smesso di dare la colpa a Dio. Nessuno è responsabile delle mie scelte, tranne me. Ho imparato molto su di me e sulle persone in generale. Ho imparato molto sulla fede. Ho disimparato e reimparato.

Sono diventato più lento nel dare giudizi sugli altri. Le persone sperimentano ogni sorta di difficoltà in un mondo distrutto, sia all’interno sia all’esterno. Non è giusto per noi valutarle in base a ciò che pensiamo dovrebbero fare.

Ma non ho ancora trovato un modo per essere altrettanto gentile con me stesso. Non ho risposto alla chiamata di Dio e questa perdita di identità mi rende difficile essere aperto con le persone. Ho la fortuna di aver cambiato chiesa due volte e la maggior parte delle persone che frequento ora sanno poco del mio passato. Ma ho ancora la sensazione che la gente mi guardi dall’alto in basso e si chieda: “Cosa ci fa ancora qui?”, anche se so che probabilmente non è così. Ho perso la fiducia in me stesso e non so dove trovarla.

Qualcuno potrebbe dire che sto vedendo solo una parte della storia. Potrebbero citare il rassicurante testo che dice che “Egli non li guida in modo diverso da quello che essi stessi sceglierebbero se potessero vedere la fine sin dal principio” (Profeti e re, p. 289). Queste parole non mi dicono nulla. Non ho seguito le indicazioni che mi sono state date. No, non di proposito. Ma la mia risposta a Dio è stata imperfetta, sbagliata. Non ho intenzione di immaginare, come facevo un tempo, che l’onestà davanti a Dio sia sufficiente. Ho immaginato abbastanza in passato. È meglio che io sia realista e che mi assuma la responsabilità dei miei fallimenti, che comprenda le mie debolezze.

Più significative sono le parole di un altro gigante della fede. “Oggi so che questi ricordi sono la chiave non del passato, ma del futuro. So che le esperienze della nostra vita, quando lasciamo che Dio le usi, diventano la misteriosa e perfetta preparazione per l’opera che ci darà da fare” (Corrie Ten Boom, The hiding place, p. 20). Questo mi dà speranza. Gli errori possono essere una lezione da imparare. Possono nascere nuove opportunità. Le porte non sono mai chiuse per sempre. E una chiamata persa una volta potrebbe non essere una chiamata persa per sempre. Basta chiedere a Mosè.

E poi, un’altra citazione tratta da un libro mi ha colpito qualche anno fa.

“Il ministero è fantastico, impegnativo, gioioso, triste, gratificante, frustrante, creativo e appagante. Nel nostro mondo post-cristiano, il ministero richiede uno studio brillante, una chiara comprensione della situazione umana e il coraggio di rompere gli schemi che non rispondono più alle esigenze di una comunità mondiale malata di peccato. Il ministero evangelico richiede visionari senza paura, disposti a sfruttare la potenza del Vangelo in un modo in cui non è mai stata sfruttata prima” (Larry Yeagley, Touched by Fire).

Io ero una di queste persone chiamate da Dio. Piango gli anni di servizio che non ho prestato. Gli anni in cui non sono stato all’altezza dei doni che Dio mi ha dato. Le opportunità perse. Le persone che hanno investito in me durante la mia vita e che ho deluso. Lo spazio vuoto che mi sono lasciato alle spalle. Mi rammarico di non essere ora nella mischia, nel ruolo a cui Dio mi ha chiamato, in prima linea, a guidare il movimento in avanti.

Forse c’è qualcuno che sta leggendo questo articolo e che è in disparte, in vaga attesa, come lo ero io. Vi prego di prendere la mia storia come un incoraggiamento ad andare avanti. Realizzate lo scopo e la chiamata che Dio vi ha dato. Non ci sarà un momento o un luogo perfetto. Non abbiate paura di cercare l’aiuto di cui avete bisogno. Le vostre debolezze sono un’opportunità per Dio di mostrare la sua forza. Seguite la chiamata. Sarete più felici per questo e la chiesa verrà benedetta da voi che vivete i vostri doni.

Non perdete la vostra chiamata al ministero.

 

 

L’autore, anonimo, è un professionista impegnato nel settore sanitario che gestisce un piccolo studio in una città australiana. Frequenta la chiesa avventista con la sua giovane famiglia e collabora in un paio di dipartimenti diversi. Nel tempo libero si diverte a correre lungo le strade locali.

Fonte: https://record.adventistchurch.com/2024/03/01/i-missed-my-call-to-ministry/

Traduzione: Tiziana Calà

Il mondo visto dalla croce
Cosa (non) dire quando ci si scusa

Avventista Magazine

La rivista ufficiale della Federazione Chiesa Avventista del Settimo Giorno della Svizzera romanda e del Ticino.

E-MAGAZINE

ADVENTISTE MAGAZINE TV

Top