JEAN-LUC ROLLAND, UNA MISSIONE DI INSEGNAMENTO E DI RICERCA AL SERVIZIO DELLA VITA PASTORALE

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Abbiamo incontrato il pastore Jean-Luc Rolland, professore presso la facoltà di teologia, dove insegna storia contemporanea e teologia pratica. È anche direttore del centro di ricerca Ellen White dal 2002, anno della sua fondazione.

AM: Hai lavorato nel ministero pastorale per 17 anni. Ciononostante, ti piace dire che la ricerca e l’insegnamento a cui dedichi il tuo tempo professionale sono molto simili a quello che è la vita pastorale.

J-L R: è bene evidenziato; è per me una gioia profonda. Vegliare a che delle persone siano felici lamentandosi di Dio, principalmente attraverso le parole e l’atteggiamento del Cristo descritto nel Vangelo, resta per me l’esperienza più bella che un essere umano possa vivere

In questo senso, quando insegno, faccio una conferenza, predico, visito delle persone durante i miei spostamenti e accolgo gli ospiti del centro di ricerca Ellen White, mi sento un pastore come quando lo era nella Federazione sud della Francia. In un certo senso, sono uno dei pastori della federazione sud in missione l’insegnamento e nella ricerca.

AM: in che modo i corsi che dai sono relazionati alla vita pastorale?

J-L R: il corso di spiritualità cristiana aiuta i futuri pastori, uomini e donne, a non fare un copia e incolla della meditazione ma a personalizzare il loro raccoglimento e a vivere un’esperienza di vita spirituale potente. Non si vuole imitare, ma vivere in presenza di Dio così come siamo. Questo corso permette agli studenti di aprirsi alla diversità e alla ricchezza delle persone che incontrano dentro e fuori dalla Chiesa. Questo approccio si ritrova anche nel corso di liturgia, che vuole far apprezzare la ricchezza e la diversità della liturgia cristiana, e favorire la creatività. Molte comunità avventiste non riescono a sbarazzarsi di alcune forme che spesso sono standardizzate. E questo vale sia per le liturgie conservatrici che per quelle moderne.

AM: la relazione tra l’attività pastorale e l’insegnamento è quindi più evidente nei corsi di teologia pratica, e forse meno evidenti in quelli di storia. Questa disciplina è utile ai futuri pastori?

J-L R: assolutamente sì! Oggi è indispensabile. E non è sempre facile, ci vogliono degli sforzi. Innanzitutto perché non tutti hanno un interesse nello studio delle fonti, che per alcuni sono troppo antiche. La storia non è solo lo studio del passato, ma riguarda anche il nostro mondo contemporaneo. Ed è proprio questo che ho voluto dimostrare nelle recenti pubblicazioni sulle origini del movimento puritano, in un articolo della rivista Servir.

AM: secondo te, questa corrente di pensiero può avere un impatto sulla Chiesa avventista di oggi?

J-L R: non ne parlo nel mio articolo. Tratta in modo più specifico la storia di altre correnti protestanti e l’attualità politica degli USA. Questo studio permette di capire meglio lo sguardo avventista, che considero assolutamente legittimo, nel trovare una nazione che vuole considerarsi come il popolo eletto, chiamato da Dio a una missione provvidenziale e universale. Detto in termini avventisti, spesso utilizzati dai puritani, una specie di nazione del rimanente.

AM: la storia permette di capire meglio il mondo e le correnti religiose di oggi, e aiuta nella scelta della Chiesa a cui si vuole appartenere.

JLR: sì, sicuramente. Credo che molti avventisti non conoscono le origini della loro comunità. Questa ignoranza, spesso involontaria, li espone a delle interpretazioni e ricostruzioni di un passato attraverso delle rappresentazioni romantiche, a volte addirittura idilliache. Se è vero che sono successe delle cose magnifiche, che sono state elaborate delle belle convinzioni, la nostra storia non è stata uniforme, scorrevole e completamente esemplare. Ciononostante, è edificante, perché anche i momenti più bui sono stati chiariti, e hanno aiutato a vivere meglio la nostra fede all’inizio del XXI secolo.

AM: puoi farci un esempio di un avvenimento inesplorato o di una fonte sconosciuta dal grande pubblico avventista che sia capace di alimentare la nostra riflessione?

JLR: l’attualità non smette di mostrarci la sfida che tutti vivono nella fede senza eccessi né radicalizzazione. In fondo, è ciò che ci viene ricordato In modo meraviglioso nel libro dell’Ecclesiaste. L’autore invita a non chiedersi in cosa i tempi antichi sono stati migliori del nostro presente. “Non è la saggezza che ti fa fare questa domanda” dice l’autore. Qualche versetto più avanti afferma si aver visto tutto, incluso un uomo giusto che si perde per un eccesso di giustizia. Di conseguenza, raccomanda al lettore “non siate troppo giusti” (Ecclesiaste 7:16). Il termine originale che la maggior parte delle versioni francese traduce con “troppo, in eccesso” significa anche “abbondanza, moltiplicazione delle cose eccellenti”. Può anche evocare delle benedizioni divine. Essere giusti, ma oltre la ragione. È possibile essere avventisti, ma esageratamente? Essere avventisti e perdersi per eccesso di avventismo? “perché ti distruggi?” continua il testo. Una lettera di William Miller mi viene in mente, nella quale esprime il suo dolore nel vedere i suoi collaboratori, tentati dall’accesso, diventare intransigenti e chiusi alla differenza d’opinione. È così che una specie di intolleranza avventista e di radicalizzazione prende forma. Ovviamente non c’è niente di specificamente avventista, ma questa patologia può influenzare ogni pensiero, ogni convinzione, religiosa o no. Ecco perché Miller reagì vigorosamente. Non credo che il suo insegnamento sia stato preso abbastanza sul serio.

AM: quali sono le parole di Miller per dirlo?

JLR: le sue parole, dirette a Joshua Himes all’inizio del 1845, sono sorprendentemente attuali: “ dobbiamo incoraggiare la diversità d’opinione. Questa diversità fu il timore dei grandi uomini e dei corpi religiosi. Per questo sono stati creati dei credo, dei vescovi e dei papi. È necessario o garantire ai nostri fratelli e sorelle la libertà di pensiero, di opinione e di parola, o ricorrere ai credo, agli enunciati dottrinali, ai vescovi e ai papi. Non vedo nessuna alternativa. […] Abbiamo rimproverato ad alcune correnti religiose e alle chiese dj aver chiuso gli occhi, le orecchie, le porte, il pulpito e gli editori alla luce. Vuoi somigliare a loro? No, che Dio ce ne salvi! Meglio soffrire di abuso di libertà che di catene di tirannia”.

AM: queste parole sembrano profetiche, no?

JLR: sono assolutamente d’accordo. Profetiche non tanto nel senso biblico del termine quanto nell’accezione popolare che paradossalmente banalizza l’idea di profetismo dandogli un significato di un’altra dimensione.

AM: cosa vuoi dire?

JLR: come molte parole d’origine straniera e diversamente dalle parole che vengono effettivamente tradotte, i termini collegati al profetismo (profezia, profetizzare, profeta) non sono delle vere traduzioni, ma delle traslitterazioni. Queste parole conservano la quasi totalità della risonanza iniziale (propheteia, prophetes) a cui con il tempo verrà associata una pronuncia latina e poi francese. Il problema di questo linguaggio è che oggi non è più inteso nel senso originale. È quindi difficile per molti dei nostri contemporanei, così come per alcuni membri di Chiesa, dissociare la profezia dall’idea di previsione, anticipazione, prospettiva. Il profeta in questo caso sarebbe un essere capace, attraverso la rivelazione, di predire il futuro. L’accento è quindi messo sul “pre” piuttosto che sul “dire”. Questo profetismo esiste negli scritto biblico ma è molto più raro di quello che pensiamo. Tutto quello che la Bibbia qualifica come profezia non è relazionato con la predizione, al contrario.

AM: in che senso si può dire che il pensiero di Miller appena visto sia profetico?

JLR: lo è a livello massimo. La qualità principale della parola profetica è quella di essere una parola detta con uno scopo, apposta, che ci lega a Dio e ci alimenta. Questa parola di distingue per un’impressionante pertinenza. Risponde ai bisogni di chi ascolta e legge . Il profeta è all’ascolto delle necessità, dell’urgenza e risponde con un atteggiamento e parole appropriati. Può discernere ma non come un indovino, non come un predicatore, perché tutto ciò non caratterizza essenzialmente il dire profetico. Infine, il profetismo biblico è spesso sovversivo: non tanto allo scopo di sconfessare il comportamento o l’eterodossia dell’individuo o della comunità umana estranei, ma per chiamare i fratelli e sorelle dal suo luogo d’origine a più fede, umanità, empatia, servizio, equità, giustizia, rispetto, accoglienza dei vulnerabili e degli emarginati.

AM: Miller parla di tirannia: non è una parola troppo forte? In fondo sta Parlando del suo stesso movimento. Sembra sofferente nel vedere tra i fratelli e sorelle che l’hanno ascoltato una minaccia di violenza . È per questo?

JLR: Miller è intelligente e chiaroveggente. La sua lucidità è interpellante. Di lui si ricordano gli sforzi e le ricerche per stabilire la data del ritorno di Cristo e ovviamente il fallimento dei suoi calcoli. È un peccato perché questa sua opinione che abbiamo visto dovrebbe essere più conosciuta.

AM: in cosa ti senti chiamato in causa?

JLR: viviamo in un mondo di grande violenza. Non è una novità, ma la particolarità di alcune violenze ci può far riflettere. Soprattutto quando la violenza è legata al fanatismo di qualunque genere e non necessariamente religioso. La violenza a cui fa riferimento Miller, o la tirannia per usare le sue parole, lo preoccupa molto. È preoccuperà anche la sua auditrice Elllen White. Questa violenza, l’avventismo lo vedrà venire spesso, e forse anche troppo, da fuori. Miller è consapevole e dimostra a che punto la gente di fuori della Chiesa ha contribuito alla diffusione del Vangelo. Tuttavia, è una riflessione piuttosto insolita, Miller aiuta a rendersi conto che la violenza non viene solo da fuori, ma bisogna aspettarselo anche dall’interno del movimento che lui stesso aveva suscitato. Gli sarebbe piaciuto vedervi della libertà d’opinione. Ai suoi occhi, non accettare la diversità dei punti di vista, non promuovere lo scambio d’opinione significa essere parte di ciò che si condanna. È essere parte della tirannia che si denuncia. Se la storia del cristianesimo mostra forza di fronte alla violenza e alla pretesa spirituale, questo atteggiamento non si presenta solo in un specifico. E l’attualità dell’inizio del XXI secolo gli da completamente ragione. L’ideale a cui ci invita Miller nel prendere in considerazione e di incoraggiare la diversità in una comunità come la sua favorendo un’unità a scapito della varietà ed eterogeneità , è un ideale molto nobile e una dura sfida. Credo che la libertà a cui ci invita il suo collaboratore Joshua Himes permette a ogni comunità di progredire: è solo in questa libertà che può respirare, crescere, sviluppare e durare. Ellen White usa diverse molte un linguaggio molto simile a quello di Miller. Così per esempio quando lei scrivere a Georges Butler, presidente della conferenza generale in cui lavorava in Europa. Secondo Bâle, Ellen White cercava di fargli capire che “se commettiamo degli errori, ci troviamo dal lato della misericordia e non della condanna e dell’intransigenza”. Questo tipo di pensiero Ellen White lo deve a William Miller che è il primo a parlarne. Delle parole che respirano il Vangelo, riempiono la mente di benevolenza che, in qualsiasi contesto, rappresentano una volontà di privilegiare l’umano, a scapito della regola, della tradizione e dei preconcetti.

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