Quando veniamo a sapere che un conoscente si è suicidato, riceviamo la notizia come uno shock. Perché? Come? Si poteva evitare? Sono numerose le domande che ci vengono in mente. Ci teniamo così tanto alla vita che supponiamo immediatamente che ci sia una causa esterna, una somma ragione, una pressione insopportabile all’origine di questo dramma.
Il suicidio non è sempre stato considerato come un peccato morale. La Bibbia parla di alcuni suicidi senza giudicare questo genere di morte. Abimelech si suicida per evitare la vergogna del fatto che una donna avesse potuto provocargli una frattura al cranio (Giudici 9:53-54); il re Saul, ferito, si suicidio per scappare alla tortura che i suoi nemici gli avrebbero potuto infliggere se fosse stato catturato (1 Samuele 31:3-4); Zimri si suicida con il fuoco per evitare la vendetta al suo crimine (1 Re 16:18); il suicidio di giuda è probabilmente il più famoso. Viene presentato solo nel Vangelo di Matteo (27:3-5) come un gesto disperato. Anche Luca fa riferimento alla morte di Giuda (Atti 1:16-20) per giustificare il rimpiazzo fra i dodici, senza specificare il fatto che si sia suicidato.
Bisognerà aspettare il IV secolo per la dichiarazione, fatta da Sant’Agostino, che il suicidio è un omicidio, il VI secolo per il rifiuto di ossequi a un morto suicida, e la fine del VII secolo affinché il Concilio di Toledo applichi la scomunicazione su coloro che si suicidano (1). Oggi, le chiese vogliono prendere in considerazione i motivi di un suicidio, e gli accordano degni ossequi.
I motivi che spingono al suicidio, infatti, possono essere diverse. Di solito si prende la decisione quando lo sfortunato è arrivato a un punto critico, una sorta di strada senza uscita, in cui non si vede altra soluzione se non quella di eliminarsi. Il suicidio rappresenta dunque un gesto di disperazione. Non potendo eliminare la causa del suo dolore, lo sfortunato elimina se stesso, pensando di trovare, attraverso questo gesto, la pace a cui aspira. Un giovane che si suicida lancia un appello, senza rendersi conto che si tratta di un’azione irreversibile. Si vive un inferno al lavoro, si hanno debiti insormontabili, ci si trova di fronte alla vergogna di un fallimento. Alcuni ricorrono a delle medicine senza sapere che inducono a dei pensieri suicidi.
Il suicidio genera spesso un sentimento di simpatia o di pietà. Il morto per suicidio viene visto come una vittima. Vittima del suo ambiente professionale, familiare, sociale. Si pensa che sia caduto in uno stato psicologico patologico che lo esonera da ogni responsabilità. La colpa dell’azione non ricade su colui o colei che consideriamo una vittima, ma sulla possibile causa del gesto. È difficile, effettivamente, immaginare che una persona abbia messo fine a ciò a cui teniamo di più: la vita.
Se si tratta di una persona cara, allora il suicidio genera un incredibile senso di colpa, da cui derivano le seguenti osservazioni “Come ho fatto a non rendermene conto?”, “Avevo notato qualcosa, ma non avrei mai immaginato questo!”, “Me ne aveva parlato, ma sembrava abbastanza forte”. Sembra che si sia persa l’occasione di agire.
Tutte queste osservazioni ci fanno credere che il destino di coloro che ci circondano ci appartiene, che le nostre azioni possono determinare le loro scelte. Questo è vero fino a un certo punto. Nel libero arbitrio, che ci permette di vivere insieme, risiede il limite delle relazioni umane. Possiamo agire, ma non decidere al posto degli altri.
Una volta che l’atto si è verificato, dobbiamo offrire aiutare e conforto ai cari che si sentono colpevoli. Il suicidio di una donna fa venire un dubbio su suo marito, quello di un figlio verso i genitori, quello di un lavoratore verso il suo capo, ecc. La simpatia, l’amicizia, l’affetto ed eventualmente l’aiuto psicologico gli saranno molto più utili che un giudizio presentato sotto forma di silenzio, per liberarsi del peso di questo senso di colpa.
Solo Dio conosce le circostanze e le cause profonde che spingono una persona e mettere fine alla sofferenza attraverso il suicidio. Non sappiamo in che momento una persona può passare dal pensiero all’azione. Ognuno ha il proprio limite di sopportazione.
Ma ci sono delle motivazioni sociali contro le quali il cristiano può lottare: la segregazione, la violenza familiare fisica e psicologica, il mobbing dei bambini a scuola, degli impiegati al lavoro, del capo di lavoro nella sua gestione, la mancanza di considerazione, la miseria: in poche parole, tutti i mali che influenzano il vivere insieme e rendono tristi le persone. Un atteggiamento propriamente cristiano è quello di essere attento alle sofferenze di coloro che ci circondano e manifestare sempre bontà, attenzione e comprensione.
Nella nostra società individualista, il suicidio rappresento un appello a più fratellanza, dolcezza, bontà. Se si può trovarne un senso, sarebbe quello di interrogarci sullo sguardo che rivolgiamo verso gli altri e il modo in cui gli prestiamo attenzione.
Richard Lehmann, Professore FAT