Nel 1493, professori e studenti della Vecchia università di Lovanio, in Belgio, furono presi da un dilemma che ancora oggi riguarda alcuni cristiani: qual è il numero ottimale di preghiere necessarie per ottenere una risposta? La questione fu oggetto di un dibattito durato non meno di otto settimane, senza giungere a una conclusione soddisfacente.
La preghiera non riguarda le formule fisse, la cui conoscenza porta a risultati garantiti. È più che una routine, una terapia o un’abitudine semplice e benefica. Comprendere lo scopo della preghiera è una condizione essenziale per la sopravvivenza della nostra fede in qualsiasi circostanza, specialmente quando le nostre richieste rimangono senza risposta.
Quando la porta resta chiusa
Nessuno vuole essere dalla parte sbagliata della porta, scrive l’autore John Ortberg, sostenendo che le preghiere senza risposta sono uno dei fattori che possono scoraggiare profondamente i cristiani dal pregare.
La Bibbia dice che Dio apre porte che nessuno può chiudere e chiude porte che nessuno può aprire (cfr. Ap 3:7). Non conosciamo i criteri per cui riceviamo una risposta positiva o un rifiuto alle nostre richieste, ma abbiamo l’assicurazione che «tutte le cose cooperano al bene di quelli che amano Dio» (Rm 8:28). A volte, dopo mesi o anni, siamo grati che alcune porte siano rimaste serrate nonostante avessimo bussato con insistenza. Altre volte, invece, non riusciamo a capire, anche dopo tanto tempo, perché la porta sia rimasta chiusa a chiave.
In alcuni casi, è chiaro che bussiamo alla porta sbagliata, scrive Ortberg, cercando di delineare alcune spiegazioni per le preghiere che non ricevono la risposta desiderata. La richiesta dei discepoli che Gesù mandasse fuoco dal cielo sulla città che non li aveva accolti, o la preghiera di Elia quando desiderò morire in un momento di estremo scoraggiamento, ne sono alcuni esempi. Altre volte, le porte potrebbero rimanere chiuse perché esiste un percorso migliore per noi, osserva Ortberg. E cita l’esempio di Abramo Lincoln che visse una serie di insuccessi nel cammino verso la presidenza, in un momento in cui la nazione americana aveva bisogno di un presidente come lui. Le preghiere apparentemente inascoltate possono dipendere dal fatto che dobbiamo crescere in determinati ambiti o che Dio ha progetti che non conosciamo.
In effetti, come sottolinea uno scrittore cristiano, quando viviamo delle crisi «noi vogliamo chiarezza, Dio vuole la nostra fiducia». La vera fede non si aggrappa alle risposte, nemmeno alle promesse incoraggianti della Bibbia, ma alla persona di Gesù.
La fede viene dalla comunione
Alla domanda sulle risposte miracolose alla preghiera, come quelle ricevute, ad esempio, da George Mueller che si prendeva cura di 10.000 orfani senza possedere le risorse materiali necessarie, il pastore Martin Lloyd-Jones era solito rispondere: «Ci chiediamo perché Dio non risponda alle nostre preghiere mentre invece rispondeva a quelle persone. Dovremmo piuttosto chiederci perché non viviamo la vita vissuta da quelle persone».
La verità è, tuttavia, che nemmeno quelli che consideriamo titani spirituali hanno sempre ricevuto una risposta immediata alle loro richieste. Mosè dovette attendere 120 anni per entrare in Canaan, la terra promessa, e alla fine non gli fu nemmeno permesso di attraversare il suo confine. L’apostolo Paolo chiese tre volte di essere guarito dalla «spina nella carne», ma ogni volta ricevette una risposta negativa.
Il capitolo 11 della Lettera agli Ebrei presenta un elenco dei tanti che hanno ricevuto risposte incredibili alla preghiera. Tuttavia, non omette coloro che, sebbene elogiati per la loro fede, sono stati in catene e hanno subito detenzione, esilio, espropriazione di beni materiali, torture e persino la morte.
Come può la fede sopravvivere in queste circostanze sfavorevoli? Il past. Pastor Morris Venden sottolinea che, a volte, coloro i quali pregano con fervore per una risposta e non la ricevono, sono sospettati dagli altri di non avere abbastanza fede. Nota inoltre che le persone possono fraintendere la preghiera e la natura della fede. Possiamo sforzarci di credere empre di più e moltiplicare così le possibilità di ricevere una risposta positiva, ma in realtà potrebbe essere necessario riconsiderare l’oggetto della nostra fede.
Fede significa confidare in Dio anche se le cose non vanno come ci aspettiamo. Non significa basarsi solo sulle promesse, ma su Colui che le ha fatte, scrive Venden. Se alcune delle promesse della Bibbia riguardano la liberazione dai problemi, altre garantiscono la potenza e la presenza di Dio con noi mentre affrontiamo le difficoltà. Nemmeno gli eroi menzionati in Ebrei 11 sapevano in anticipo come Dio avrebbe risposto alla loro preghiera. In piedi davanti alla fornace ardente, i tre amici di Daniele deportati come schiavi a Babilonia affermarono la loro solida fiducia in Colui che poteva salvarli dalla morte, ma erano anche consapevoli che non poteva intervenire. La loro fede era radicata in Dio, non nella sua risposta.
«Dimentichiamo che la preghiera è più di un testo che si recita; è un incontro vissuto. È molto più comunione che comunicazione» scrive il prof. Roberto Badenas. A volte rileviamo accenni al rituale pagano nelle nostre preghiere, quando proviamo a persuadere Dio a cambiare il suo atteggiamento, a ottenere il suo favore o a renderlo consapevole dei nostri reali bisogni, osserva Badenas. Ma la preghiera genuina arriva con la consapevolezza che incontriamo Dio quando veniamo per adorare, che lui ci dà la sua attenzione e che sebbene siamo solo polvere, abbiamo il privilegio di rimanere alla sua presenza giorno dopo giorno, respiro dopo respiro.
Dallo scoraggiamento alla fede
La vita cristiana non è un rifugio in un giardino protetto da tutti i pericoli del mondo, ma un camminare alla presenza di Dio, afferma lo scrittore Eugene Peterson e sottolinea che in questo viaggio di fede i cristiani «respirano la stessa aria, fanno acquisti negli stessi negozi, … temono gli stessi pericoli, sono sottoposti a pressioni simili alle altre, subiscono le stesse sofferenze, sono sepolti nel stessa terra».
Al funerale di un padre che aveva sofferto di una grave malattia negli ultimi sette anni della sua vita, la famiglia scelse di stampare due versetti della Bibbia sul davanti e sul retro dell’opuscolo distribuito ai partecipanti alla cerimonia funebre: «Il Signore è il mio pastore, nulla mi manca» e «Mio Dio! Mio Dio! Perché mi hai abbandonato?». Basta aprire la Bibbia ai Salmi 22 e 23 e questi testi appaiono insieme, in alcune versioni sono nella stessa apertura della pagina.
Le difficoltà, i problemi e le tragedie determinano se percorreremo la strada dello scoraggiamento e dell’incredulità, o la strada della fiducia in Colui che conosciamo, quando siamo nell’incertezza.
La fede di Elie Wiesel morì nei campi nazisti, di fronte al corpo di un bambino che penzolava impotente dopo essere stato impiccato. La fede di Corrie ten Boom si rafforzò nelle stesse terrificanti condizioni. Corrie avrebbe descritto in seguito le meraviglie a cui aveva assistito: la bottiglia di vitamine da cui sgorgavano delle gocce, indipendentemente da quanti detenuti si affollassero attorno ad essa; la Bibbia che non era mai stata scoperta durante le perquisizioni, nemmeno quando i detenuti venivano spogliati completamente; la pace e la tranquillità che discesero nel dormitorio delle sorelle ten Boom, dove donne piene di violenza cambiarono grazie alle parole della Scrittura. Ma tutto questo conviveva con la fame, la paura, il freddo, la violenza e la morte nel campo di concentramento. Là dove Elie Wiesel aveva visto un Dio assente, indifferente, già morto, le sorelle ten Boom potevano distinguere, in ogni difficile giornata, le tracce di Colui che era stato frustato, spogliato e deriso; di Colui che aveva camminato davanti a loro su quella strada irta di spine, levigandola. Hanno visto un Dio che risponde sempre, ma con tempi suoi. E, secondo Betsie ten Boom, sorella maggiore di Corrie, «Il suo tempo è perfetto. La sua volontà è il nostro rifugio».
«non temerei alcun male» (Sl 23:4) dice il salmista, per il quale la sua pace non derivava dalla certezza che sarebbe stato protetto da qualsiasi pericolo, ma dal sentimento della presenza ininterrotta di Dio, ovunque si trovasse.
Lo scrittore Philip Yancey afferma di avere un cassetto pieno di lettere di cristiani le cui richieste non hanno ricevuto la risposta desiderata: matrimoni distrutti, malattie non guarite, un bambino nato con deformità. Tutte le porte che vengono sbattute rumorosamente sulla nostra faccia ci spingono verso una scelta, osserva lo scrittore citando le parole di George Everett Ross: o un tipo di fiducia basata sul «se», o basata sul «nonostante». Mentre il primo tipo cerca freneticamente le ragioni per resistere, il secondo si impegna a resistere in qualsiasi condizione, come fece Giobbe: «E quando, dopo la mia pelle, sarà distrutto questo corpo, senza la mia carne, vedrò Dio» (19:26).
In attesa dela vera fine
È facile perdere la visione quando cresci i tuoi figli da solo, scrive il professore di religione Jerry Sittser che ha perso parte della sua famiglia in un incidente d’auto. Ma ci si può trovare nello stesso ambito di vulnerabilità se si soffre di depressione, se si è divorziati o rifugiati di guerra. È necessaria una prospettiva più ampia per credere al di là delle risposte alla preghiera o alla loro mancanza, sottolinea Sittser. Questa prospettiva più ampia deve comprendere, oltre alle circostanze schiaccianti del presente, la storia del sacrificio di Dio nel passato e la sua promessa di ripristinare il bene in futuro. Anche se pensiamo di sapere troppo poco su ciò che ci accade in un determinato momento, dovremmo sempre sapere abbastanza per essere sicuri che Dio mantiene il controllo, non importa quanto le cose possano apparire critiche.
Nel 1915, poco dopo il loro matrimonio, Alma e Norman Wiles [missionari avventisti, ndt] andarono in missione sull’isola di Malekula, nelle Nuove Ebridi, «uno dei luoghi più oscuri della terra» come notò il missionario presbiteriano John Geddie nel suo diario del XIX secolo. Alcune tribù del luogo praticavano ancora il cannibalismo e molti missionari erano già stati uccisi.
Cinque anni dopo, Norman si ammalò di «febbre dell’acqua nera» e per cinque giorni e notti Alma vegliò su di lui pregando senza sosta. Eppure, la maggior parte delle preghiere non ebbero risposta. Norman non ricevette una guarigione miracolosa. Il suo amico Stewart, un missionario che si trovava su un’isola vicina, non lo raggiunse in tempo, come Norman aveva desiderato ardentemente. Nessuno dei numerosi messaggi inviati dalla donna raggiunse l’isola vicina e Stewart non partecipò nemmeno al funerale del suo amico, sebbene Alma desiderasse così tanto non dover seppellire suo marito da sola. Alla fine, costretta a lasciare la propria casa di Malekula per motivi di sicurezza, Alma viaggiò fino alla casa della famiglia Stewart, affrontando da sola la giungla e le tribù ostili. Non fu esaudito nemmeno il suo fervido desiderio, la sua preghiera sincera, di continuare a lavorare come missionaria a Malekula.
Quarantatre anni dopo, Alma visitò di nuovo l’isola e rimase sbalordita da ciò che trovò. Un migliaio di persone avevano abbracciato il cristianesimo, molti costumi crudeli erano ormai solo un ricordo e lo status delle donne era cambiato radicalmente. La vita di una donna era stata a lungo considerata meno preziosa di quella di un animale. Nel vederla, alcune persone del luogo che ancora si ricordavano di lei andarono a ringraziarla. Alma esclamò tra le lacrime: «Ne è valsa la pena! Se Norman potesse vederli ora … Sì, ne è valsa la pena».
Alla fine dei tempi, ogni mortale giungerà alla conclusione formulata da Alma quando ha guardato indietro alla sua difficile vita sull’isola. «Ogni ginocchio si piegherà» (Is 45:23) in adorazione e ogni lingua confesserà che in un mondo di peccato, le vie di Dio sono sempre state giuste (cfr. Ap 15:3). Anche quando il silenzio è assordante, Dio ha ancora il controllo e ci ama.
Da Carmen Lăiu
Fonte: https://ilmessaggeroavventista.it/fede-che-supera-le-preghiere-senza-risposta/
Traduzione: L. Ferrara