Seconde possibilità: la fede nel perdono

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Molti anni fa, quando ero ancora al liceo, il nostro insegnante di lingua e letteratura rumena ci assegnò il compito di scrivere una cornice narrativa, completa di personaggi e di una trama a nostra scelta.

 

Non ricordo i dettagli del racconto che creai, ma ricordo che la trama ruotava intorno all’idea di una seconda possibilità: un adolescente problematico, tormentato da un errore commesso, trova la sua vita miracolosamente resettata, le sue azioni passate cancellate e gli viene data l’opportunità di ricominciare come se nulla fosse mai accaduto.

Il nocciolo della storia era catturare la battaglia interiore di una persona contro le sue vecchie abitudini e la possibilità di un nuovo inizio, libero dalle tentazioni e dalle insidie degli errori passati.

Purtroppo, non abbiamo mai ricevuto un qualche feedback dal nostro insegnante, con la spiegazione che “i fogli erano andati persi”. Noi studenti sospettavamo che questa scusa nascondesse la dura realtà: i nostri deboli tentativi di scrittura creativa non valevano nemmeno la pena di essere discussi in classe.

Privati del parere di un esperto sul valore artistico delle nostre opere, siamo semplicemente andati oltre. Nessuno di noi aveva l’ambizione di diventare scrittore, quindi l’assenza di critica non ci scoraggiava, anzi, forse quasi il contrario.

 

Riluttanti a ricominciare

Anni dopo, lavorando con persone che si trovano in difficoltà a causa di condizioni sfavorevoli aggravate dalle loro stesse scelte di vita, mi sono resa conto che noi esseri umani siamo davvero resistenti all’idea di ricominciare. Anche quando ci viene tesa una mano, non ci consideriamo meritevoli del sostegno o dubitiamo della nostra forza per ricostruire una vita migliore, passo dopo passo. Un terzo scenario, meno auspicabile e più pessimistico, suggerisce che rifiutiamo il cambiamento a causa della tendenza a vittimizzarci.

Non si tratta di situazioni in cui qualcuno è letteralmente vittima di aggressioni, calamità, ingiustizie o maltrattamenti, né dell’autovittimizzazione cronica, quel tratto stabile della personalità che distorce gravemente la realtà. Si tratta piuttosto di quei momenti critici in cui ci poniamo consapevolmente al di sotto delle nostre possibilità e opportunità, sottovalutando erroneamente le nostre forze e capacità.

 

Vittima di persone e circostanze

La tendenza di una persona a descriversi come vittima di persone o circostanze può derivare dal suo bisogno di sicurezza e controllo. In altre parole, in mezzo a una serie di eventi incontrollabili, ci aggrappiamo a un unico pensiero, che poi si trasforma in una certezza, in una convinzione e in una filosofia di vita: poche cose che ci accadono sono sotto il nostro controllo; la maggior parte proviene da fonti esterne.

Se portato all’estremo, questo meccanismo di autodifesa contro difficoltà apparentemente insormontabili mantiene una persona in uno stato di inerzia, indebolendo sia la capacità che la responsabilità delle scelte personali. Per coloro che si considerano vittime, gli altri sono sempre da biasimare per ciò che manca, non si vuole o non si può ottenere. La soluzione ai loro problemi si trova sempre al di fuori di loro stessi, mai all’interno.

Da un lato, l’adozione di un ruolo passivo nella propria vita risparmia loro lo sforzo di cercare un cambiamento, ma dall’altro li costringe a sopportare il continuo tormento di un’esistenza insoddisfacente.

 

La pratica rende perfetti

Intorno a noi vediamo vari esempi di persone corrotte da questa mentalità: impiegati insoddisfatti che non fanno alcun passo verso un cambiamento di carriera; donne che lamentano l’infedeltà del proprio partner e che rimangono nel ruolo di moglie “martire”; uomini affetti da carenze materiali che cercano solo capri espiatori, non soluzioni.

Se siamo onesti con noi stessi, possiamo trovare questi esempi nella nostra vita. Quante volte abbiamo accettato una situazione spiacevole semplicemente perché era più facile rimanere fermi che fare sforzi costanti, seri e consapevoli per cambiare?

Non è solo la pigrizia a dettare il comportamento compiacente di chi non è disposto ad aiutarsi, ma anche il ripetere sempre lo stesso schema. Tuttavia, così come l’inerzia legata a una mentalità vittimistica viene appresa gradualmente e impercettibilmente, può anche essere disimparata.

 

Flessibilità di pensiero e di azione

Innanzitutto, un’onesta autovalutazione, che esamini le tendenze che ci definiscono, può contribuire alla visione realistica necessaria per un cambiamento di prospettiva.

Ogni volta che è necessario, dobbiamo ricordare a noi stessi che, nonostante le nostre paure, debolezze e vulnerabilità, abbiamo una risorsa inesauribile: una forza di volontà che può essere esercitata come i muscoli in palestra. Questa forza di volontà può essere sfruttata per aprire nuovi capitoli quando il presente non ci soddisfa più.

Non è sbagliato coinvolgere gli amici più cari nel nostro esercizio introspettivo. Un parere ben argomentato e ben intenzionato da parte di un “occhio critico” può mettere in luce aspetti della nostra personalità che potremmo trascurare. Allo stesso modo, è prezioso chiedere il contributo di persone fidate per ottenere una prospettiva diversa. Il loro punto di vista obiettivo può tradurre ciò che noi sperimentiamo soggettivamente dall’interno. Inoltre, è perfettamente accettabile cercare la guida e l’ispirazione divina per diventare più abili in questo processo di accettazione del cambiamento, che sia un cambiamento di mentalità, di atteggiamento o di comportamento.

Dal centro dell’azione, molte cose possono sembrare definitive e irrevocabili; da un punto di vista marginale, spesso non lo sono. Considerare altre prospettive richiede lo sviluppo di una certa flessibilità di pensiero e di azione, abbandonando l’idea che tutto sia fissato nella pietra e che il domani sarà proprio come oggi.

 

“Perdonerò, ma non dimenticherò”

La mentalità del vittimismo è spesso indotta dalla convinzione che gli esseri umani abbiano una serie di limiti difficili o addirittura impossibili da superare. Questa convinzione può essere interiorizzata in due modi: può portare a sottovalutare le proprie forze e a essere passivi, e può anche influenzare il nostro atteggiamento verso gli altri, in particolare verso coloro che ci hanno fatto un torto.

Nella vita di tutti i giorni si sente spesso dire: “Perdono, ma non dimentico”. In altre parole, “se mi hai fatto un torto, possiamo essere di nuovo amici, ma non aspettarti che io faccia tabula rasa perché non dimenticherò presto le tue trasgressioni”.

 

Il verdetto del “non perdono”

Questo approccio illustra la nostra mancanza di fiducia nella volontà e nella capacità dell’altra persona di cambiare veramente. Rivela anche il nostro rifiuto di dargli una seconda possibilità.

 

Ognuno ha una propria guida o un proprio sistema di valori che funge da bussola nel valutare e soppesare gli errori di chi gli ha fatto un torto.

 

Per una persona, la bugia di un amico potrebbe essere vista come un innocuo lapsus, mentre per un’altra la stessa bugia potrebbe essere considerata imperdonabile. Nella maggior parte dei casi entra in gioco la soggettività, con un giudizio finale influenzato dalla natura della relazione, dalle aspettative stabilite e dalla gravità e dalle conseguenze del torto subito.

Purtroppo, questi episodi delicati sono comuni tra genitori e figli, fratelli, coniugi, amici, colleghi e vicini di casa. Questi problemi sono quasi inevitabili nelle relazioni umane e portano a sentimenti profondi come sfiducia, risentimento, rabbia, desiderio di vendetta e l’impressione che le cose non possano più essere le stesse.

Dato l’impatto personale, non tutti riescono a superare facilmente episodi di tradimento o delusione da parte di chi è vicino. Se poi ci mettiamo anche l’orgoglio personale, il verdetto del “non perdono” diventa certo e inespugnabile.

A questa ricetta del non perdono o del perdono parziale (che non dimentica) si aggiunge l’etichetta di vittima che assegniamo alla persona che cerca seriamente di riabilitarsi: una vittima dei propri limiti, delle proprie scelte e dei propri errori.

Se giudicata solo per i suoi errori, una persona può diventare inseparabile dall’azione che ci ha causato disagio, perdita o sofferenza. Questo rende difficile riportare la persona alla sua posizione precedente alla “caduta”.

 

Le persone possono cambiare

Se è vero che la fiducia, una volta persa, è difficile da ricostruire, ci sono però esempi che dimostrano che le persone possono cambiare, se lo desiderano veramente.

Nel suo libro “27 Steps”, il corridore Tibi Ușeriu racconta il suo viaggio da condannato per rapina a mano armata in un carcere di massima sicurezza fino a diventare lo spirito gentile e libero che è oggi, dedito alla corsa e alla promozione del volontariato tra i giovani come modo per trasformare se stesso e chi lo circonda.

Ognuno decide come rispondere a chi gli fa un torto: con disprezzo, indifferenza, durezza, rifiuto, critica o vendetta. Oppure, al contrario, con comprensione, calma, pazienza, maturità, saggezza e flessibilità.

Il perdono non dovrebbe essere un valore negoziabile, non solo per i suoi ben documentati benefici (rafforzare le relazioni, ridurre la depressione, l’ansia e lo stress, abbassare la pressione sanguigna, rafforzare il sistema immunitario, migliorare la salute del cuore e aumentare l’autostima) ma anche perché una seconda possibilità è innegabilmente un’espressione dell’amore divino, la prova definitiva che un nuovo inizio è possibile e realizzabile.

In questo contesto, possiamo interpretare l’appello “rimettici i nostri debiti come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori” (Matteo 6:12) come un duplice invito al cambiamento: la trasformazione personale e la trasformazione di coloro che meritano un’altra possibilità.

 

 

Di Genia Ruscu, che ha conseguito un master in consulenza nel campo del lavoro sociale

Fonte: https://st.network/analysis/top/a-second-chance-faith-in-the-forgiveness-that-transforms-us.html

Traduzione: Tiziana Calà

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