Alcune persone rimpiangono le grandi scelte che hanno fatto nella propria vita; altre rimpiangono che la vita non abbia dato loro una scelta.
Io non mi ritrovo in nessuna di queste due categorie, ma in una più bizzarra: sono una di quelle persone che non sapevano, fin dall’inizio, di avere una scelta o che cosa significasse effettivamente avere una scelta. Fortunatamente, con il tempo, ho imparato che scegliere implica assumersi una responsabilità creativa per la mia vita, e per ora, sto ancora imparando a gestire i dubbi che sorgono lungo il cammino.
Per molto tempo, ho pensato di star facendo una scelta quando reagivo, in un modo o nell’altro, alla rotta indicata dalle figure autoritarie della mia vita (genitori, nonni, educatori, Dio). Sceglievo quando ascoltare o no. Ho iniziato il mio viaggio verso l’indipendenza quando ho cominciato a ridurre l’autorità solo a Dio e a misurare l’autorità delle persone che avevano voce in capitolo nella mia vita rispetto a ciò che comprendevo essere la Parola di Dio.
Ho passato molti anni in questo sistema di pensiero, in cui la mia interpretazione della volontà di Dio a volte si scontrava con alcune tradizioni della mia famiglia o con alcune attività che erano popolari tra i miei amici. Le mie scelte si riducevano a un binomio morale che vedevo in maniera categorica: buono-cattivo, morale-immorale, giusto-sbagliato, vero-falso. La mia iniziativa non si inseriva tra queste possibilità di scelta. A volte, la mia condizione (autopercepita) di essere sempre sotto il dominio della decisione morale assoluta mi sembrava ingiusta: tutto era diviso in bene assoluto o male assoluto.
Col tempo, questa prospettiva si rifletteva in una relazione transazionale con Dio: se faccio ciò che è giusto (nell’interpretazione più onesta di cui sono capace), allora Dio sarà contento di me e tutto andrà per il meglio nella mia vita. Penso che questo modo di pensare sia molto allettante per la spiritualità incipiente. Lo riconosciamo in tutta la sua stravaganza nel movimento del “Vangelo della prosperità”, ma troviamo più difficile dedurlo dall’esperienza ordinaria del cristiano che si aspetta (anche inconsciamente) che la sua vita sia, se non prospera, almeno prevedibile.
La relazione transazionale si vede nella sorpresa che sperimentiamo quando la nostra vita prende pieghe inaspettate e spiacevoli.
Ci rendiamo conto allora che, anche se non l’abbiamo mai verbalizzato, nel nostro cuore avevamo pensato che non ci saremmo ammalati di quella grave malattia, che non avremmo avuto persone care che morivano in maniera inaspettata, che non saremmo stati ingannati, che non avremmo perso denaro in affari sbagliati, ecc. Nel nostro cuore facciamo un patto con noi stessi che la nostra vita avrà un corso prevedibile, proporzionale alle nostre intenzioni, che Dio non potrà trascurare, ma che invece proteggerà e benedirà.
L’imprevedibile ci scaglia per un po’ in un’atmosfera in cui tutte le leggi sono temporaneamente sospese e tutto è opinabile. La nostra tendenza naturale è quella di cercare di ristabilire la prevedibilità del sistema riverificando la validità della storia che ci raccontiamo sulla vita e tenendo da essa solo ciò che supera la prova delle nuove circostanze.
Questo è stato vero anche nel mio caso: le tristi esperienze di perdita mi hanno fatto riconsiderare la mia storia. Inizialmente ho scoperto che il tacito “contratto” che credevo esistesse tra le persone e Dio, la comprensione che nulla di veramente brutto può accadere alle persone che fanno del bene, non esiste. Non sapevo come esprimerlo a parole in quel momento, ma cominciavo a sentire che Dio è certamente molto più grande degli schemi spirituali che mi ero creata.
Se è così misteriosamente diverso e grande, molto probabilmente il bene che deriva da lui deve essere anche molto più vario e complesso di come lo percepisco attraverso le lenti dell’educazione religiosa. Finora non ho trovato nessuna buona ragione per cambiare idea. Invece, questa visione ha gradualmente rimodellato il modo in cui oggi mi relaziono alle scelte.
Oggi, sto imparando a integrare l’imprevedibile nella prevedibilità della vita. Cerco di abituarmi all’idea che l’imprevedibile accadrà e che quando succede, non devo pensare che la mia metanarrazione sia stata demolita né sentirmi in colpa per averla costruita fin dall’inizio. Sarebbe meglio ammettere che qualcosa di inaspettato era destinato ad accadere. Ho anche concluso che non devo vederlo come una conseguenza inesorabile, come un teorema matematico delle mie scelte, ma come un’affascinante applicazione di una legge della vita che ancora non conosco o non posso conoscere.
In questa prospettiva, Dio non mi deve nulla per aver preso le giuste decisioni, e le cose tristi della mia vita non diventano necessariamente il risultato dei miei errori.
Spesso arrivavo in ritardo alle grandi fermate della vita perché ogni passo in quella direzione era una decisione analizzata all’interno del mio forum interiore con la naturale insicurezza di chi crede che il futuro possa e debba essere previsto con precisione, e che io debba incanalare tutti i miei sforzi e usare tutta la mia intelligenza e conoscenza a questo scopo. Oggi non ho più lo stesso pensiero. Adesso, vedo che il futuro può essere scritto magnificamente anche quando non si possono prevedere tutte le sue sfumature. Questa realizzazione apre l’orizzonte delle scelte e le spoglia del pesante fardello di una falsa responsabilità di certezza che, in realtà, nessuno ha posto sulle nostre spalle.
“Non siate dunque in ansia per il domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. Basta a ciascun giorno il suo affanno” (Matteo 6:34).
In quei momenti cerco di ricordare che il futuro non è in bianco e nero e che i suoi tanti colori brillano di più quando li vivo in un rapporto di comunione con Dio, che non vedo più come un contratto, ma come un’amicizia.
È così che sono arrivata a credere che le mie scelte consistono non solo nell’esprimere l’adesione a una delle opzioni possibili, giudicando questa adesione secondo un binomio morale, ma che la scelta più importante è quella che genera l’opzione, nel contesto sicuro e incoraggiante di un’amicizia con Dio.
Non ho nessuna garanzia di fare una buona scelta in futuro, ma non ho più paura che una scelta sbagliata mi spinga oltre i confini del risolvibile, perché sono convinta che Dio, che ha messo in noi lo spirito d’iniziativa, è disposto a raffinarlo in modi che probabilmente non riusciamo nemmeno a percepire.
Di Alina Kartman, (35 anni) si è laureata alla Facoltà di Comunicazione e Relazioni Pubbliche a Bucarest (SNSPA), per poi scegliere una carriera nel giornalismo. Con centinaia di articoli pubblicati, ha accumulato oltre 13 anni di esperienza editoriale.
Fonte: https://st.network/religion/doubt-and-the-big-choices.html
Traduzione: Tiziana Calà