Nel 1532 avvenne – com’è noto – il passaggio dei valdesi alla Riforma. Una decisione storica che solleva per noi un’importante questione: c’è o non c’è continuità tra il prima e il dopo ? I valdesi medioevali vennero completamente omologati dalla Riforma di Lutero, Bucero, Ecolampadio e Zwingli, e più tardi da quella di Calvino? Detto altrimenti: nel momento dell’adesione alla Riforma vennero azzerati i trecentocinquant’anni di vita clandestina del movimento valdese, collegato nella sua dispersione europea alla figura dei «barba» (i predicatori itineranti)? Nell’autunno del 1532, a Chanforan (luogo della storica svolta), nel cuore delle valli valdesi in Piemonte, s’inaugurò la tomba del valdismo medievale? Quest’ultimo era stato caratterizzato da una spiritualità nutrita di radicale biblicismo; da un’assidua e attenta “cura delle anime” praticata dai barba lungo le vie di una vasta itineranza; e da un’insopprimibile riserva critica verso l’istituzione ecclesiastica, che coltivava “costantinamente” il potere economico e politico… Ma tutto ciò, a Chanforan, di botto scomparve? Iniziava per i valdesi, a partire dal 1532, un’altra storia? Dopo essermi documentato, ritengo che alcuni tratti essenziali dell’esperienza valdese medioevale siano rimasti, almeno in parte, ancora presenti e attivi. Non solo: rimango convinto che – pur nel necessario adattamento alle circostanze storiche successive – tali elementi siano riscontrabili anche nella chiesa valdese di oggi.
A Chanforan, nel settembre del 1532, giunsero i riformatori svizzeri: fra questi il focoso predicatore Guillaume Farel di Neuchatel e il pastore Antoine Saunier. Essi trovarono fra i valdesi anche dei generosi finanziatori per una nuova versione della Bibbia. E capirono che i valdesi potevano essere per loro dei nuovi alleati preziosissimi (l’anno prima Zwingli era stato ucciso in battaglia a Kappel, e i cantoni cattolici erano sempre più agguerriti). Ma si resero pure conto che i valdesi sarebbero potuti cadere, grazie all’influenza hussita, direttamente tra le braccia degli anabattisti, anziché confluire nell’alveo luterano. Questi riformatori scoprirono e valorizzarono la tenacia di un popolo «eretico» che aveva alle spalle, già allora, una storia incredibile. Un’“epopea” che trasmette, ancora oggi, un fascino straordinario. Non è un caso che la storia del valdismo sia stata, più di una volta nel corso dei secoli, mitizzata. Si pensi, per fare il primo esempio che mi viene in mente, al famoso testo di storia valdese, del 1851, di Alexis Muston: Israël des Alpes.
Oggi, grazie al lavoro degli storici che continuano a far luce sulla lunga stagione del valdismo pre-Chanforan (notevole, al riguardo, il lavoro che la nostra Claudiana ha messo in cantiere, pubblicando i manoscritti valdesi medievali) possiamo sempre meglio documentare la singolarità di una testimonianza cristiana che ha resistito ai feroci e persistenti attacchi dell’omologazione religiosa. A Chanforan (grazie anche al lavoro di alcuni barba avveduti e colti, che prepararono il terreno per l’incontro) si procedette da parte dei riformatori a un’energica potatura dell’antica pietà e dottrina valdese. Gli interventi sull’antica pianta valdese furono dettati da un’esegesi più attenta e profonda del testo biblico. E quando l’albero, una volta potato e innestato, comincerà finalmente a portare i suoi primi frutti, essi avranno un gusto diverso da prima. Ma il tronco, rappresentato dalla centralità della Parola di Dio nella vita della comunità di fede, era sempre quello di prima… Nel corso dei secoli precedenti a Chanforan, erano già avvenuti per il valdismo molti cambiamenti, anche significativi. Ma questa volta la trasformazione si realizzò in tempi rapidi, perché il valdismo era entrato in contatto con i riformatori solo una dozzina d’anni prima del 1532. Il tempo della trasformazione fu inversamente proporzionale al periodo di assimilazione delle novità. Forse a Chanforan si girò pagina troppo in fretta, perdendo l’occasione di maggiori approfondimenti, da entrambe le parti, sui grandi temi in gioco: penso alla povertà, alla nonviolenza, all’itineranza, alle riserve critiche nei confronti dei poteri di questo mondo, al sacerdozio universale dei credenti, alla predestinazione, al servo arbitrio…
I cambiamenti proposti dai riformatori, e accolti in campo valdese, erano tutti biblicamente motivati. Il confronto tra la teologia dei riformatori e il biblicismo dei barba non poteva avere, dati i tempi, altro epilogo che quello di Chanforan, dove ci furono certamente contrasti e divergenze. Ma alla fine prevalse quella scelta riformata che si rivelò necessaria per poter continuare a vivere. La decisione di aderire alla Riforma protestante non risparmiò comunque al mondo valdese, durante i secoli dopo Chanforan, stragi, distruzioni devastanti, severe ghettizzazioni, l’esilio. Le fonti storiche dimostrano che, sul fronte della discriminazione, per i valdesi non ci furono sconti. Ma l’avere scelto di entrare, nel 1532, nella corrente riformata europea consentì al «piccolo gregge» di poter contare, dopo Chanforan, su una solidarietà internazionale più grande. E su un impianto culturale e teologico meglio strutturato. Per non dire degli aiuti e della solidarietà che il mondo valdese riformato ha continuato a ricevere, nel corso dei secoli, dalla rete protestante internazionale: un flusso provvidenziale che ha evitato il tracollo o la sua stessa sparizione. Ma per i valdesi non si trattò solo un ricevere: è stato anche un dare. I giorni di Chanforan raccontano la concretezza di aver voluto finanziare una nuova versione in francese della Bibbia. Una scelta che indica come sia dal terreno biblico che occorre, sempre e di nuovo, ripartire nel cammino del discepolato cristiano. Proprio a Chanforan l’eredità spirituale del valdismo medioevale approda a una nuova traduzione della Bibbia, facendo affiorare la passione per il testo biblico, offerto in lingua comprensibile. Secoli prima, nelle audaci scelte di Valdo a Lione, quella passione aveva acceso i cuori e le menti di uomini e donne che – come disse un inquisitore – «nudi cercavano un Cristo nudo».
Giuseppe Platone