In aprile, il Ruanda ha ricordato il XXII anniversario del genocidio avvenuto nel paese africano nel 1994. Estremisti di etnia hutu si scagliarono contro i loro concittadini di etnia tutsi. Anche alcuni avventisti. Il massacro durò 100 giorni e tre quarti dei tutsi morirono. Da allora il governo ruandese ha portato avanti un ampio progetto di riconciliazione nazionale. In un paese stravolto, il perdono è divenuto una necessità vitale. Pubblichiamo la testimonianza di Isaac Ndwaniye, presidente della Federazione Est-Centrale del Ruanda apparsa su Adventist Review online
Quando le persone parlano male dei killer del genocidio in Ruanda, ricordo loro che Dio è molto paziente.
Gli assassini arrivarono in giorno di sabato, portati nella proprietà della Chiesa cristiana avventista dallo stesso presidente della Missione e da suo figlio, medico e direttore sanitario dell’ospedale Mugonero della Chiesa. Molte persone si erano rifugiate nell’area della Missione del Ruanda meridionale dopo l’inizio del genocidio, il 7 aprile 1994. I pastori e le loro famiglie affollavano gli edifici, in particolare lo stabile della chiesa, insieme ad altri membri avventisti, pensando che sarebbero stati al sicuro.
Ho lavorato come direttore del dipartimento delle Pubblicazioni della Missione del Ruanda meridionale. Gli uffici, la chiesa, la scuola, le case degli operai e l’ospedale Mugonero erano tutti situati nella stessa zona, chiamata Kibuye. Il giorno prima che i ruandesi cominciassero a uccidersi l’un l’altro, ero nella capitale, Kigali, per partecipare a una serie di incontri delle Pubblicazioni, presso la sede dell’Unione di Missione del Ruanda. Quella sera, l’aereo in cui viaggiava il presidente del Ruanda fu abbattuto e il genocidio ebbe inizio. Il giorno dopo, un impiegato dell’ospedale Mugonero mi chiamò per dirmi che mio figlio di 14 anni, Paul, era stato ucciso e che mia moglie era fuggita con gli altri bambini nella chiesa della Missione, per trovare protezione.
Poi, sabato 16 aprile, gli assassini entrarono nella proprietà avventista con l’aiuto del presidente della Missione e di suo figlio. Come può essere accaduto? Mio padre era pastore e aveva lavorato con questo presidente; anche io avevo lavorato con lui e non avevo idea di ciò che albergava nel suo cuore.
Quello che mi ha rattristato ancora di più è che i pastori rintanati all’interno della chiesa, insieme a mia moglie e agli altri miei otto figli, avevano scritto una lettera al presidente della Missione, in cui gli dicevano: «Sappiamo che stanno venendo per ucciderci. Per favore, aiutaci a imbarcarci sul lago, così andremo in Congo e saremo salvi».
La lettera fu portata da un soldato a casa del presidente, ma lui rispose che ora, nemmeno Dio poteva aiutarli. Persone provenienti da tutto il paese arrivarono nella proprietà per uccidere gli avventisti. Alcuni degli assassini erano avventisti a loro volta. Vennero con granate, maceti, coltelli e tutto ciò che poteva togliere la vita a un essere umano.
Un pastore predicava quando i killer entrarono in chiesa. Subito gli spararono e lo uccisero. Poi cominciarono a massacrare gli altri. Mia moglie e i bambini corsero a casa del presidente per chiedere aiuto, ma lui li allontanò. Altri corsero verso l’ospedale, cercando di fuggire, ma furono catturati da persone che li aspettavano con i maceti. Il massacro nella proprietà avventista continuò per diversi giorni. Giorno e notte gli assassini cercarono coloro che potevano essere sfuggiti, usando anche i cani per ritrovarli nella boscaglia.
Quando il genocidio si concluse, nel mese di luglio, avevo perso tutta la mia famiglia: mia moglie, i miei nove figli, mio padre, mia madre, tre sorelle, un fratello e un cognato.
Una chiesa per gli sfollati
Lo scoppio del genocidio mi impedì di tornare a casa. Da Kigali, fui portato da un gruppo di soldati in un campo profughi, in una provincia settentrionale del paese. Ero l’unico pastore del campo e non ebbi tempo per i pensieri tristi. Scoprii che essere occupato a compiere il bene, fa dimenticare le cose brutte successe a te. È così che Dio mi ha rafforzato.
Un venerdì sera ero in giro per la città, nelle vicinanze del campo, quando vidi una chiesa cattolica abbandonata. Chiesi il permesso di pregare e tenere i servizi religiosi in quella chiesa. Avuta l’autorizzazione, tornai nel campo e invitai le persone a venire in chiesa, il sabato.
Iniziammo a incontrarci ogni sabato. Anche se eravamo senza casa, chi aveva i soldi, fedelmente restituiva la decima e donava le offerte. A volte, venivano a trovarci persone dall’Uganda e davano dei soldi che usavamo per le offerte, dopo averli decimati. Mettemmo da parte la decima, al sicuro, in attesa che la Chiesa in Ruanda potesse iniziare a operare di nuovo, e utilizzavamo le offerte per curare i feriti.
Molte persone di altre fedi si unirono agli avventisti nel servizio religioso di ogni sabato. Il tempo passò e potemmo lasciare il campo quattro mesi dopo. Intanto, 300 persone erano pronte per il battesimo.
Quando il genocidio finì, a luglio, andai a Kigali e scoprii che nessuna chiesa avventista operava nel paese. Così andai in tutta la città, supplicando le persone a tornare in chiesa. Lentamente, la gente riempì di nuovo i luoghi di culto e mi fu chiesto di servire come presidente della Chiesa cristiana avventista ruandese per due anni. Più tardi, fui eletto al dipartimento Pubblicazioni dell’Unione.
Cinque anni dopo mi fu rivolto l’appello più difficile che abbia mai ricevuto: sarei stato disposto a servire come presidente nella zona della Missione di Mugonero, dove la mia famiglia era stata uccisa?
Pregai per questo e decisi di andare. Era la prima volta che ritornavo lì a lavorare con le persone che avevano ucciso la mia famiglia. Non sapevo che cosa dire e quando arrivai pregai: «Dio aiutami e dammi la forza e le parole da dire a queste persone».
Ricordo di aver trascorso una notte intera in preghiera, subito dopo il mio arrivo, chiedendo a Dio di darmi una chiara direzione. Al mattino ero certo della necessità di radunare tutti per un incontro. Sapevo che se non avessi parlato con tutti i membri della comunità fin dall’inizio, essi si sarebbero sentiti sempre minacciati dalla mia presenza. Avevo bisogno di aprire il mio cuore.
Convocai una grande assemblea di tutto il distretto nel mio primo sabato di presenza lì. L’Unione del Ruanda «mi ha mandato qui per predicare la buona notizia e per guidare questa Missione», dissi, «Non voglio che qualcuno mi dica chi ha ucciso la mia famiglia. Non voglio nemmeno che qualcuno mi dica che è mio amico. Il mio amico è colui che ama Dio e che ama l’opera di Dio. Lavoriamo insieme in questo spirito».
Restai lì per tre anni e poi fui richiamato a Kigali per servire come presidente di quella che è oggi la Federazione Est-Centrale del Ruanda. Siamo grati al Signore che la nostra Federazione è cresciuta da 65.000 membri di chiesa, nel 2004, a più di 110.000 avventisti, oggi. Il Ruanda ha in totale una popolazione di 12 milioni di abitanti; la Chiesa cristiana avventista ha circa 640.000 membri. Ora teniamo studi biblici e ci prepariamo a battezzare 100.000 persone, dopo gli incontri evangelistici che avranno luogo a fine maggio.
Amore e perdono
Il mio versetto preferito della Bibbia è Giovanni 3:16: ” Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna”. Se Dio non avesse amato tutti nel mondo, sarei andato e avrei ucciso gli assassini della mia famiglia. Ma Dio li ama, e dà loro il tempo di pentirsi.
Il presidente della Missione e suo figlio sono stati processati e condannati al carcere per genocidio e crimini contro l’umanità. Il padre è morto, mentre il figlio è ancora detenuto.
Quando ero nel campo di sfollati, durante il genocidio, un giornalista venne a intervistarmi. Aveva sentito parlare di come avevo perso tutta la mia famiglia e mi chiese: «Che cosa ne pensi della vendetta?».
Presi la mia Bibbia e l’aprii in Ebrei 10:30-31: «Noi conosciamo, infatti, colui che ha detto: “A me appartiene la vendetta! Io darò la retribuzione!”. E ancora: “Il Signore giudicherà il suo popolo”. È terribile cadere nelle mani del Dio vivente».
«È una cosa spaventosa quando il Signore viene a prenderti!», dissi.
Il giornalista fu stupito. Pensava che avrei incoraggiato la vendetta. Ma ho risposto con la Bibbia.
Quando le persone parlano male degli assassini, ricordo loro che abbiamo un Dio molto paziente con noi. Lui è molto paziente con tutti e non vuole che nessuno perisca. Questa è l’unica cosa che può aiutare uno come me, che è passato attraverso tali circostanze. Ogni volta che qualcuno viene a Dio e chiede perdono, il Signore lo perdona. Non c’è nessun peccato che Dio non possa perdonare. La morte non è qualcosa che fa paura a Dio. Non è un grosso problema per lui.
Un’altra cosa che mi dà forza, oggi, è sapere che la mia famiglia e gli altri pastori e le famiglie che si erano rifugiati in quella chiesa trascorsero i loro ultimi giorni studiando la Bibbia. Pregarono Dio per il perdono dei loro peccati e chiesero perdono gli uni verso gli altri. Questo mi dà la forza di continuare a vivere, perché so che un giorno li vedrò di nuovo. So che ora dormono e si sveglieranno un giorno. Per questo, io vivo per Lui.
Fonte www.ilmessaggeroavventista.it
Foto: Gina Wahlen